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È tipico dei periodi di sbandamento morale e culturale che il bisogno di regole e di certezze porti alla feticizzazione di alcuni valori: troppo faticoso reintegrarli nella complessa pratica della vita sociale e delle attività quotidiane, per cui li si riduce a formule decontestualizzate e sempre identiche a sé stesse, utilizzabili per distinguere senza sforzo e senza ulteriori ricerche o esperienze (e dunque in modo automatico e manicheo) il bene il male, chi abbia ragione e chi torto.
Un esempio? Il mito della coerenza. Va notato subito che la coerenza non è la stessa cosa che la lealtà o l’ortodossia: queste ultime garantiscono la continuità di un rapporto di fiducia con altri, sono dunque sociali; la coerenza è piscologica e garantisce solo la nostra continuità interna, la conformità del nostro agire con il nostro pensiero o le nostre intenzioni. In alcune circostanze ciò è utile anche agli altri, per esempio per identificare chi sia affidabile e chi no. Chiaramente però non si tratta di per sé di un pregio: in diversi contesti o contingenze diventa ostinazione e caparbietà, conformismo o fanatismo. Infatti la coerenza non è mai stata una virtù, né cristiana né civile, e neppure un concetto filosofico o politico. In effetti la parola cominciò a essere usata nella prima modernità e nel senso fisico di “coesione”, per esempio da Galileo; il suo significato figurato è più tardo e la sua diffusione un effetto dell’individualismo romantico: ma solo recentemente è diventata una qualità. Ovvio: quando i valori erano condivisi, comuni, partecipati e vissuti, la questione era se li si praticasse o meno; nel mondo del mero profitto i valori sono regrediti a livello personale e dunque non sono dimostrabili in sé ma solo attraverso la tenacia con cui sono affermati.
Così, nell’Italia attuale, dominata dal consumismo e dalle mode, tanti cittadini e troppi pentastellati stanno trasformando in una virtù la loro personale incapacità di adattarsi alla realtà o di operare efficacemente in essa: per cui non si tratta più di ottenere dei risultati, sia pure parziali o graduali, bensì di dimostrare la propria purezza e la propria fedeltà a un principio astratto. Ovvio che il potere, nella fattispecie quello liberista, gradisca e promuova questa etica senza fondamenti, questo integralismo superficiale, gratificante quanto inefficace, anzi, efficacissimo nell’autodistruggersi con il proprio velleitario massimalismo. In questo senso “coerenza” (dal lat. cohaerere, “essere attaccato, incollato”) è l’opposto di “critica” (dal greco κριτικ, “arte o capacità di giudicare”).
Sto parlando del “caso” Fioramonti. Non so abbastanza di lui da azzardare un giudizio; mi sembra una persona per bene. Tuttavia anche le persone per bene fanno errori o hanno debolezze: nel suo caso mi pare evidente che non fosse adatto per fare politica e, specificamente, il ministro. La politica non ha niente a che vedere con la coerenza perché non riguarda, o non dovrebbe riguardare, l’affermazione della propria personalità o delle proprie convinzioni bensì del bene comune, nell’interesse della polis. Non è neanche una questione di pragmatismo: è proprio una questione di rispetto e amore per la realtà e per la gente reale: che non sono come le vorremmo ma possono essere cambiate (è lo scopo della politica) e tuttavia non devono essere mai rifiutate, abbandonate. Chi sa solo pretendere e non sa ottenere faccia un altro mestiere.